Per approfondire gli aspetti più rilevanti per noi di CBM, l’importanza della vista e l’inclusione anche culturale, abbiamo intervistato Vera Gheno, sociolinguista e attivista.
Vera Gheno conduce il podcast “Amare parole” e uno degli episodi è ospitato nel nostro progetto didattico “Cambiamo sguardo. Dire, fare, parlare di disabilità”. Il suo ultimo libro è “L’antidoto. 15 comportamenti che avvelenano la nostra vita in rete e come evitarli”.
Se anche tu cerchi un antidoto a chi crede di essere migliore e tratta chi è diverso con superiorità, prova a pensare se ci fosse una medicina, un antidoto appunto, che inviti e non costringa, sia aperto e non prescrittivo, libero e non vincolante. Un modo per cambiare sguardo, partendo dal punto di vista di Vera Gheno.
L’intervista a Vera Gheno
- Secondo te c’è differenza tra far cambiare sguardo e far cambiare idea?
Iniziamo facendo una distinzione tra far cambiare sguardo e aiutare a cambiare sguardo. Io parto da un presupposto: c’è una parte delle persone che probabilmente è quasi irrecuperabile. Sono le persone che non si pongono dubbi, quelle che hanno già deciso che le cose stanno in un certo modo. Questa posizione, da un punto di vista cognitivo, è un segnale di debolezza, perché in realtà la forza del pensiero umano è anche quella di cambiare idea, di dubitare, del socratico sapere di non sapere. Quindi, il mio lavoro, per provare a cambiare la mentalità delle persone, è rivolto a coloro che stanno in una zona grigia, cioè alle persone che si pongono dei dubbi.
Dal mio punto di vista aiutare a far cambiare idea vuol dire dare degli strumenti per capire non tanto che si sta sbagliando, quanto che il proprio sguardo è parziale. Lo faccio mettendo a disposizione strumenti per relativizzare il punto di vista, perché per il modo in cui è organizzata la nostra società c’è almeno una parte delle persone che è convinta che le cose stiano in un preciso modo e solo in quello. Questa convinzione peraltro viene amplificata dal modo in cui studiamo.
Pensiamo alle tematiche di cui mi occupo, quelle di genere. Se noi studiamo su libri di storia, libri di filosofia, libri di arte, libri di musica, libri di grammatica in cui il punto di vista è quello maschile bianco, decolonizzare lo sguardo è molto difficile. La nostra società è normocentrica, cioè assegna al normale un valore anche di migliore e questo comporta che tutti coloro che stanno ai margini sono percepiti come irrilevanti.
È quella che si definisce ingiustizia epistemica, per cui pensiamo che una persona con disabilità, anche una persona cieca, non ha nulla da dirci, non ha nulla da insegnarci e quindi è irrilevante. A questo proposito, secondo me, ha detto delle cose bellissime Helen Keller, la prima donna sordocieca a laurearsi: lei è riuscita a emanciparsi rispetto alla sua disabilità visiva e uditiva perché ha trovato una persona che ha fatto da ponte fra lei e il resto della società, insegnandole come comunicare con l’esterno. La famiglia l’avrebbe lasciata nel suo isolamento, perché il pensiero dominante era “a che serve far studiare una sordocieca?”
Per questo quello che io cerco di fare è di dire: guarda, tutto quello che ti hanno insegnato non è sbagliato, ma è una delle versioni possibili della narrazione. Ce ne sono altre e quando ne scopri altre, magari ne scopri anche di migliori, cioè che ti danno anche personalmente più soddisfazione. Almeno per me ha funzionato così. Non ho dovuto distruggere tutto quello che credevo giusto e sostituirlo con nuove credenze: la conoscenza si fa per aggiunta, non per sostituzione.
- Il nostro linguaggio è pieno di riferimenti alla vista, di metafore visive e di uso della parola “vedere” per dire “capire”. Oppure, mettere a fuoco, che si usa spesso anche solo per significare “fermarsi un attimo, fare attenzione”. Te ne viene in mente qualcuno in particolare? Fa parte del tuo modo di esprimerti?
È pieno! Da, appunto “vederci chiaro”, al fatto che, quando ci si saluta si dice ci vediamo. E la cosa più buffa è che a me capita di avere studenti ciechi o ipovedenti che mi dicono tranquillamente ci vediamo, perché ormai si è quasi sconnesso dal significato letterale e si usa semplicemente come formula di saluto.
Quello che è interessante, secondo me, è che questa centralità della vista nella lingua è la cartina di tornasole di quanto noi pensiamo che la vista sia centrale nella nostra vita. Un’altra cosa che dice Keller è che se ti manca un senso non ti manca la possibilità di usarlo, semplicemente lo usi in altro modo, c’è una specie di reindirizzamento dell’esperienza.
Nel punto di vista (appunto) di una persona che vede, anche se male, come me, c’è questa fortissima centralità dell’immagine e faccio fatica a immaginarmi altre realtà in cui non è così centrale. Io stessa, quindi, sono vittima di un punto di vista prevalente che riesco a mettere in discussione solo grazie alla grandissima fortuna di incontrare e frequentare le varie comunità. In questo dialogo che provo a mettere in piedi con persone che hanno caratteristiche diverse dalle mie mi rendo conto che so veramente poco del mondo e che quindi si può sapere altro e si può sapere anche in altro modo.
Un’altra cosa che ho imparato frequentando persone cieche è che io, da vedente, pensavo che usare le metafore visive fosse qualcosa di quasi offensivo. Invece, le persone che ho frequentato mi hanno detto che i problemi sono altri, non certo il dirsi “Ci vediamo”, tanto è vero che appunto, anche persone cieche me lo dicono tranquillamente come pure dicono “ho visto chiaro” e quindi poi la metafora la usano anche loro.
Tornando all’attenzione e al capire meglio, mettere a fuoco vuol dire anche focalizzarsi su qualcosa, quindi, non è per forza una cosa legata alla vista, ma anche focalizzarsi su un suono, per dire. Però è vero che noi usiamo tantissime espressioni simili e io, che ho sempre avuto problemi con la vista sin dalla più tenera età, sento pesantemente le metafore visive, perché il non vedere o il vederci male è parte della mia quotidianità.
Ringraziando Vera per la chiacchierata chiudiamo con una riflessione. Per cambiare sguardo il primo passo è frequentare persone diverse da noi, frequentare gli altri, anche solo letterariamente. Per arricchire le nostre vite, come ricorda Vera: la conoscenza si fa per aggiunta, non per sostituzione.
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